giovedì 30 maggio 2013

Daft Punk: nient'altro che pop

"E' lei la ragazza!".
Proprio come succedeva in "Mulholland Drive", qualche Mister Roque della musica internazionale ha deciso che il trend dell'estate 2013 sarà osannare i Daft Punk. Senza una ragione precisa, solo perché quest'anno va così.
All'improvviso ti ritrovi circondato da decine di persone che gridano il proprio entusiasmo per questo misterioso (?) duo francese. Trentenni cogli occhialoni che giurano di scorgere chissà quale ricerca dietro i brani del nuovo album (di solito si giustificano citando la tanto sbandierata collaborazione con Moroder). Ragazzini indie che simulano estasi mistiche non appena sentono l'intro di "One More Time". Gente insospettabile che fino a un anno fa li considerava robaccia da discoteca e adesso finge di averli sempre apprezzati fin dai tempi di "Around the World". Tutta gente che fra un paio d'anni non ricorderà nemmeno chi diavolo sono i Daft Punk, perché il solito Mister Roque avrà spostato il loro sguardo verso qualche altro fenomeno di plastica, come succede ai girasoli.
La verità è che di tutta la scena french house emersa alla fine degli anni Novanta i Daft Punk sono sempre stati gli esponenti più tamarri e grossolani. Incapaci di scrivere una canzone accattivante come "Lady" dei Modjo, o di riprodurre l'energia dei Cassius, lontani anni luce dalle sperimentazioni di Mister Oizo, devono la loro longevità solo ed esclusivamente alla loro faciloneria, che gli ha sempre garantito un buon seguito mainstream. In altre parole: si tratta di pop, cafonissimo pop della peggior specie.
Quindi non può che far ridere questa esaltazione collettiva, soprattutto quando arriva a contagiare certi sedicenti esperti di musica abituati a sbandierare il proprio disprezzo per la "roba commerciale".
Ammettiamolo. Gasarsi per i Daft Punk equivale a commuoversi per le canzoni di Emma Marrone, o considerare i Modà un gruppo "rock". Non che in questo ci sia qualcosa di male. Solo, chiamiamo le cose col loro nome. Grazie.




 

martedì 28 maggio 2013

"La Grande Bellezza" RECENSIONE


Caro diario, questa sera sono stato al cinema e ho visto un film molto bello. Un film su un mondo piuttosto squallido, quello delle persone ricche e importanti che stanno a Roma. Queste persone fanno molte feste, e queste feste erano descritte in modo estremamente coerente, con sequenze curatissime, altamente estetizzanti, e al contempo gelide, vuote. E questo bel film era "La Grande Bellezza" di Paolo Sorrentino. Poi, nella stessa sala, ho visto anche un film di merda. Una storia insulsa che sembrava scritta da un tredicenne, su un tizio che, dopo aver buttato via una vita intera in feste e stronzate, "ritrova se stesso" tornando sul luogo della sua prima trombata, seguendo il consiglio di una vecchia suora senza denti. Una vera schifezza! E questo film di merda era "La Grande Bellezza" di Paolo Sorrentino. PS: nel mezzo hanno proiettato anche il nuovo film di Verdone, con lui che fa il suo solito personaggio di sempliciotto imbranato e un po' sfigato con le donne. Non ho capito cosa c'entrasse cogli altri due film, e comunque non mi ha fatto ridere.

Traduzione: è sempre così, coi lavori di Sorrentino. Ho sempre l'impressione di vedere due film, uno piuttosto bello e curato, l'altro una schifezza indegna del più incapace studente di cinema, mixati insieme e inscindibili. Mi frega ogni volta. Ogni volta che fa un nuovo film penso "questa è la volta buona, vedrai che stavolta è tutto un bel film, o almeno un film tutto dignitoso" e invece è sempre la solita esperienza bi-gusto.

Jep Gambardella, il protagonista de "La Grande Bellezza", ripete più volte che la sua più grande aspirazione sarebbe scrivere un romanzo sul Nulla. Bè, io conosco un regista che sarebbe bravissimo a girare un film su quell'argomento: Paolo Sorrentino. Perché Sorrentino dà il meglio di sé quando non vuole dire niente.
Sorrentino è un genio nel creare belle immagini in movimento, farebbe dei videoclip stupendi (forse ne ha fatti, non lo so) perché ha il senso dello spazio, del ritmo, del colore, dell'inquadratura, dell'atmosfera. Ma non sa raccontare, non sa proprio cosa vuol dire costruire un personaggio e inserirlo in una storia, una storia vera. In questo senso i suoi protagonisti sempre grotteschi, sempre surreali, sono davvero la sua unica ancora di salvezza: distratto dalle stravaganze di queste maschere, il pubblico non si accorge che la storia non c'è, e se c'è è una cazzata.
Però poi arriva sempre il "climax emotivo", quel momento intenso che vorrebbe essere la chiave di volta della trama, ed è sempre lì che Sorrentino fallisce: la storia si sfalda miseramente invece di risolversi, i personaggi appaiono per quello che sono - maschere, appunto, senza spessore - e il narratore si dimostra incapace di parlare di alcunché, perché ha la sensibilità di un preadolescente.
Se solo Sorrentino facesse pace con questa cosa, se solo abbandonasse la presunzione della profondità, potrebbe girare interi film fatti di pure scenografie in movimento, e sarebbero dei capolavori.